domenica 27 settembre 2009

A ruota libera.

Pensavi che la stazione centrale degli autobus di Buenos Aires fosse molto piú incasinata, ma non é cosí. Sei nella sala d'attesa e attendi, la Patagonia. Sali sul colectivo, sono 19 le ore di viaggio che hai di fronte. Dormi, ti svegli, il rumore é sempre lo stesso : ruote pesanti sull'asfalto, un rombo di ovatta nella testa, é dentro di te e tu dentro il colectivo, il colectivo dentro il paesaggio. Gli occhi ricominciano il loro instancabile lavoro di sempre, realizzando per primi il deserto che finalmente ha vinto sul cemento di Buenos Aires.


Ha mai osato tanto il tuo sguardo? La vastitá della spianata é accarezzata solo dai ciuffi legnosi degli arbusti e da quelli piú morbidi delle pecore. E sembra immobile, questa vastitá, ma é solo un teso equilibrio tra il vento e la terra, quello stesso vento che hai sempre immaginato stretto tra case e pertugi, subdolo e infingardo, lungo strade o sentieri, sempre confinato a se stesso, e che qui acquista invece una nuova dimensione di grandezza e dominio. É un vento largo e spavaldo quello che soffia qui, in Patagonia. E la forma delle piante ti suggerisce il solo modo per convivere con questa forza, ovvero lasciarsene sedurre.


I chilometri scorrono implacabili ed eccoti a Puerto Madryn, eccoti alla Peninsula Valdés, e allora il freddo, la spiaggia, l'Atlantico, i fenicotteri rosa che se ci corri vicino spiccano il volo e ti sembra di stare in un altro mondo, e poi le balene, che sono giganti e sbuffano come locomotive e che


saltano, saltano in mezzo al mare perché in piena esplosione ormonale che quasi esplodi anche tu, e poi i guanaco che sono come i lama ma lama non sono, e gli armadilli che pensavi fossero giganti e invece sono piccole e perfette sculture di cornea, e poi i pinguini, che stanno arrivando ma non sono ancora arrivati. E allora hai solo il tempo di tirare il fiato e di pensare che vuoi spingerti ancora piú a Sud, ed ecco che ti ritrovi di nuovo sul gigante a due piani che inghiotte l'asfalto, di nuovo immerso nella steppa patagonica.


Le distanze tra le cittá aumentano parallelamente alla desolazione. Pensi che é l'unico paesaggio arido pieno di pozze d'acqua. Ti fermi a Rio Gallegos, giusto una notte, giusto alla pensioncina qui a lato, dalla signora Ines, che ama l'Italia, che crede in Dio perché gli hanno ucciso il marito a fucilate lungo la strada per rapinargli il camion, e perché Dio é grande e si vendicherá, e senza Dio la vita sarebbe un inferno. Di fronte a questa disarmante ovvietá ti stupisci di trovarti completamente d'accordo, e vai a dormire, sperando che Dio non decida di vendicarsi proprio quella notte. E la mattina, all'alba, riparti. Il pullman é piú piccolo ma le ore di strada sempre tante. La desolazione, la melancolia, sensazioni che ti avvolgono e traspirano attraverso i pori, ma in senso inverso, da fuori a dentro; e si mischiano ai tuoi vent'anni e alla sensazione di libertá che i migliaia di chilometri di asfalto e terra battuta ti han distillato, per un risultato di dolce e impetuosa impotente onnipotenza.


É cosí che finisce la terra ferma, davanti a te la traversata del leggendario Stretto di Magellano, un barcone arrugginito, giusto lo spazio per il pullman e qualche rimorchio, e un piccolo ponte dove sali, quasi correndo, non senti il vento che taglia la faccia, non senti il freddo che addormenta le mani, non senti il tuo stesso grido (stai gridando?). E approdi, Terra del Fuoco, quella stessa terra che ti ricordi da quando eri piccolo perché ti avevano detto che faceva freddissimo, ma per te era pur sempre la terra del fuoco, e cosí avevi realizzato che anche il ghiaccio puó bruciare. Altre ore di steppa e poi di colpo il paesaggio cambia perché nella parte Sud della Terra del Fuoco nascono le Ande, o forse muoiono, proprio dentro al mare, proprio nel punto in cui Pacifico e Atlantico si annullano a vicenda, e dove, molti anni fa, fu costruita una colonia penale che porta il nome di Ushuaia, la fine del mondo. Ma per te che sei arrivato fin lí, cosí non é, per te la fine del mondo é ancora oltre, é Capo Horn, é l'Antartide, ma devi accontentarti dell'Isla H, fazzoletto di terra nel Canale di Beagle, perché é inverno e in questa stagione non si puó osare oltre. Troppo pericoloso.


E allora non ti rimane altr
o se non girare in tondo per la cittá e accontentarti dei personaggi tendenzialmente alcolici che incontri. Come Jeremia. Lo conosci in bagno, tu ti stai asciugando dall'acqua della doccia, lui, entrato all'improvviso, si sta bagnando e pettinando a piú riprese (e apparentemente senza un obiettivo preciso) il suo riporto grigio-bianco. E ti racconta a flusso continuo, senza presentazioni, che vive in ostello, che la moglie l'ha cacciato di casa, che sta cercando lavoro, vorrei aprire una ferramenta, ho giá del materiale in una cantina qui vicino, forse un amico mi concederá dello spazio nel suo piccolo Kiosco proprio alla fine di questa strada, peró ora come ora vivo alla giornata, ma non va poi tanto male, ho persino conosciuto un pastore qualche tempo fa, un pastore della Chiesa Evangelica Apostolica, lavora con i senza tetto, gli offre di che mangiare e coprirsi, sai, qui fa parecchio freddo, e anch'io vorrei essere un pastore, ho iniziato a studiare la Bibbia, ma sai come mi chiamo? Jeremia..come il profeta. Ora devo andare, tanto piacere. E ti ritrovi a pensare, ormai completamente asciutto, che una scena cosí l'avevi vista solo in un film (l'Odio) e che forse la Patagonia é abbastanza cinematografica per tutto questo.. e allora tiri il fiato un'altra volta e torni per strada.


Risali verso Nord, ma questa volta lo fai piú a Est, la ruta non é piú la 3 ma la 40, e alla tua
sinistra, finalmente, le Ande sono un confine dove lo sguardo puó trovare riparo. E mentre pensi che queste montagne ti accompagneranno per i prossimi mesi, realizzi che anche la vegetazione é cambiata e che gli arbusti hanno lasciato spazio a gruppi di alberi secchi, grigi, spettrali. Assolutamente in sintonia con la Patagonia.



Puó una montagna vomitare tanto ghiaccio?

Guardando da lontano il Perito Moreno é la prima domanda che prende forma. E poi ti ritrovi di fronte a lui, e ne avverti i crepitii. E poi ti ritrovi in barca sotto di lui, e lo senti che si muove, animale preistorico, fino a liberarsi sputando il ghiaccio nel lago sottostante, cimitero di iceberg da cui lo stai osservando. Ma é quando sei sopra di lui, quando l'hai addomesticato e conquistato con dei ramponi ai piedi, che ti svela i suoi segreti. Cristalli, ruscelli, laghi azzurri, crepacci blu, sculture dalle forme bizzarre.. e ti sembra di stare in una fiaba scolpita da Gaudí.



Giusto il tempo di assimilare la meraviglia. Giusto il tempo di apprezzare il gesto di Ricardo, vecchio panadero di origini gallesi, che ti offre parte del suo lavoro (decisamente le empanadas piú buone della Patagonia!) perché fiero dei motivi del nostro viaggio, fiero non come argentino ma come essere umano. Giusto il tempo di scoprire che la Ruta 40 piú a Nord é inagibile e che dovrai tornare indietro e riprendere la 3, il che significa 42 ore di strada fino a Bariloche, tua prossima tappa. E questa volta non solo tiri il fiato ma stringi anche un po' i denti, decidi di spezzare il viaggio, di nuovo a Puerto Madryn, perché stavolta i pinguini sono arrivati e puoi finalmente vederli, guardarli, imitarli, sono migliaia. E risali sul colectivo contento e un po' pinguino, e nelle altre 19 ore di strada riesci ancora a notare la moltitudine di forme che le nuvole assumono, ma la differenza, rispetto alla banale scoperta, é la perfezione dei contorni sullo sfondo senza fine. E ti svegli che sei nuovamente tra le Ande, a San Carlos de Bariloche, ricca, snob, fredda. E il nome del suo immenso e cupo lago, Neuel Huapi, ti suona quasi una minaccia di vendetta su coloro che hanno usurpato quelle terre selvagge sterminandone i nativi. Con un colpo di reni affronti le ultime 22 ore di pullman che ti separano da Buenos Aires, gli occhi ancora incollati al paesaggio e tu, a ruota libera tra asfalto e poesia.





P.S. Abbiamo aggiunto un piccolo video alla fine del post precedente "Garage Olimpo". Tanto per.

domenica 13 settembre 2009

Garage Olimpo

Iniziamo a parlare dell'Argentina con un argomento che ci sta particolarmente a cuore. In Europa si parla molto dell'olocausto che il popolo ebraico ha sofferto nel ventennio nazifascista. Tralasciando le polemiche su come questo fatto sia quotidianamente "venduto" da una certa parte politica integralista in nome dell'ebraismo (citando Norman G. Finkelstein, ebreo e figlio di deportati, oggi insegna all'Università di Chicago), la questione è che non conosciamo pressochè nulla di altri olocausti, avvenuti con mezzi e metodi differenti, ma con uguale ferocia e crudeltà (e che tuttora si consumano in diverse parti del mondo, vedi appunto Palestina). Ci riferiamo qui in particolare agli otto anni di dittatura militare che han caratterizzato l'Argentina dal 1976 al 1983; e a quel "fenomeno" meglio conosciuto col nome delle sue vittime : desaparecidos. Non è nostra volontà raccontare gli avvenimenti storici qui e ora (ci si può facilmente informare con libri o attraverso internet).
Riassumiamo comunque in due parole ciò che quotidianamente avveniva : un apparato paramilitare, i grupos de tareas (nè esercito, nè polizia) era autorizzato a sequestrare i cosiddetti dissidenti, termine alquanto vago e attribuito a discrezione (personale) di chiunque avesse un po' di potere. Socialmente spariti, i sequestrati venivano portati in centri di detenzione clandestina, la maggior parte dei quali si trovavano in pieno centro di Buenos Aires (ad esempio un edificio della scuola della marina militare argentina, la EMSA, oggi Museo della memoria), e lì venivano sistematicamente torturati. Per poi essere gettati con aerei di Stato in pieno oceano. Già morti o il più delle volte ancora vivi.
Dopo il ritorno alla democrazia, qualcuno pagò ma i più sono rimasti impuniti grazie a due leggi-amnistia promulgate da Menem (da poco nuovamente annullate perchè dichiarate incostituzionali grazie alla magistratura.. giusto quel potere che in Italia vogliono eliminare..)

Ancora oggi le madri dei desaparecidos, riunite nell'associazione Madres de Plaza de Mayo, ogni giovedì dalle 15.30 alle 16.30 sfilano nella piazza 25 de Mayo davanti alla Casa Rosada (sede del potere esecutivo) rivendicando giustizia. Lo fanno da 30 anni, con quella tenacia che solo le donne possiedono.

Arriviamo qualche minuto prima e troviamo già un'atmosfera densa d'emozioni. Le madri dell'associazione sono facilmente riconoscibili per via della bandana bianca che indossano come copricapo. Sono una ventina, sparse attorno al sottile obelisco marmoreo che centra la piazza come il braccio di un compasso. Alcune vendono spille e libri documentaristici dietro ad una bancarella; altre condividono parole e ricordi con chi è disposto ad ascoltare. Il nostro interesse è catturato in particolare da un gruppo di giovani scolari che circonda, quasi inghiotte, una piccola donna anziana, stereotipo di nonna. Sta raccontando di come hanno sequestrato la figlia, in pieno giorno. Gli occhiali opachi e la voce bassa ma ferma rendono i suoi occhi inumiditi dal ricordo un'immagine indelebile nella nostra mente.
Alle 15.30 rintocca la campana della Catedral, e puntuali le madres della piazza si riuniscono dietro ad uno striscione blu che recita : "Contra la riqueza y la oligarquia terrateniente" (Contro la ricchezza e la oligarchia padrona).


Si leva un timido applauso di incoraggiamento dalla folla che si è pian piano accumulata nella piazza. E queste donne, la cui più giovane avrà sessant'anni, nè fiere e nè orgogliose, ma dalla disarmante perseveranza, iniziano la marcia circolare, lenta, quasi ritmica, attorno all'obelisco.
Partecipiamo, come molta gente comune. Spuntano foto, manifesti, visi di figli spariti. Scopriamo che parallelamente a questo olocausto si è sviluppato un giro di adozioni clandestine di bambini figli di desaparecidos. In tutto circa cinquecento. Senza possibilità di individuarli.
Il nodo alla gola si stringe un po' e, alla fine della marcia, durante un altro applauso di due minuti, la commozione è diffusa.


Le ferite non solo sono ancora aperte, ma sanguinano copiosamente: fatto recente è l'intimidazione ricevuta dalla presidentessa dell'associazione (Hebe de Bonafini) che si è trovata la porta di casa crivellata di colpi...


Ma la densa goccia d'angoscia in questo mare di rabbia è la nostra constatazione di come le libertà individuali, persino nel nostro "avanguardista" mondo Occidentale, non siano un dono a priori,ma debbano essere continuamente difese. In questa tremenda deriva del "senso critico" non conosciamo più il significato delle parole, ed è così che releghiamo termini come "ignoranza", "olocausto", "dittatura" a tempi passati, lontani. E non indaghiamo più sull'imponente significato che hanno.
E allora penso al mio paese, dove esiste la censura. Penso al gesto di Borghezio, che disinfetta i treni su cui viaggiano gli stranieri. Penso ai passatempi interattivi come "rimbalza il clandestino" e a dichiarazioni di come sia legittimo torturarli. Penso agli avvenimenti occorsi nella caserma di Bolzaneto. E infine penso che nel mio paese c'è chi opera affinchè l'odio sociale cresca, affinchè il terrmine democrazia cambi significato, e affinchè si trovi un capro espiatorio su cui concentrare l'attenzione e la propria frustrazione. Ovvero, il dissidente/clandestino di turno.

Vogliamo concludere consigliando a tutti (come tempo addietro hanno consigliato a noi), uno dei tanti film che trattano di questo argomento : Garage Olimpo. Non è un documentario, è semplicemente un film. Direi, d'azione.

Video : www.youtube.com/watch?v=lk8vpuajKGc