domenica 8 novembre 2009

"El derecho de vivir no se mendiga. Se toma."

Gabriel Tomàs de la Torre arrivò a Pampallana nel 2001 a dorso di mulo, 120 chilometri dalla prima strada non asfaltata. Nel pieno della puna, l'altipiano si trova a circa 4000 metri di altitudine e la sua estensione è contenuta in un largo sospiro, uno dei tanti necessari per la scarsità di ossigeno. Lo disabitano qualche pastore e molti bambini, in case sparse che hanno lo stesso colore della terra e del fango. Qua e là drappelli di lama e pecore, visioni bibliche alla forte luce del sole.


Gabriel Tomás de la Torre arrivó con l'idea rivoluzionaria di installare una scuola. All'arrivo fu accolto nella casa di Don Cresencio, il capo spirituale e sociale della comunità, carica acquisita per anzianità. Sessant'anni, forse, qualche dente, forse, e la fatica scolpita nelle pieghe del volto. Gabriel si fermò da lui un anno, dormendo con lui per terra, scaldandosi allo stesso fuoco arso in mezzo alla stanza e lavandosi al fiume, quando il vento gelato e sottile lo permetteva.
Sono passati 8 anni. La scuola, oggi, è riconosciuta dal governo e conta di tre aule, tre maestri stabili e tre rotativi. Grazie alla mensa il problema malnutrizione è stato quasi completamente risolto. Sono state costruite latrine comuni, pozzi per la spazzatura, molta gente dorme su materassi e brucia legna in buchi sempre più simili a camini. Sono stati installati pannelli solari per l'approvvigionamento di corrente negli edifici comuni. È stato creato persino un piccolo spazio di riferimento, chiamiamola piazza, delimitata da un recinto circolare di sassi e centrata dall'enorme scultura del Puscano, a rappresentare la tradizione lavorativa di questo popolo. La comunità da 170 anime è cresciuta a 265 e gli alunni della scuola in totale sono 62. Infine, qualche giorno fa, sono state gettate le fondamenta per la costruzione di un piccolo quanto gigantesco centro di primo soccorso. Ma la vera magia di Gabriel non è stata quella di permettere questo incredibile sviluppo sociale, quanto quello di aver dato un'identità a questa comunità indigena, i Diaguitos -Calchaquì. Di dare un'ubicazione geografica, una coscienza di popolo, una dignità di essere umano a un pugno di gente dimenticata dal tempo. Facendo in modo che siano loro stessi ad essere gli autori di questa rivoluzione. Gabriel Tomàs de la Torre, il più grande e vero rivoluzionario che abbia mai conosciuto.


Sopravvivono di pastorizia. Allevano lama, pecore e qualche scheletrica mucca. Si nutrono grazie alla carne dei loro animali e grazie alla lana che vendono. Questa, dopo essere stata tagliata con delle cesoie tanto grezze quanto pericolose, viene filata con l'aiuto di uno strumento di legno, chiamato puisca. Nella sua forma e nel modo in cui viene utilizzata ricorda una trottola. La filatrice afferra con indice e pollice l'apice della puisca e con un movimento morbido e abituale la fa roteare, nel mezzo dell'aria o appoggiata con la sua punta al terreno, mentre con l'altra mano mantiene il filo teso. È così che si crea quel caldo e quasi magico gomitolo di lama, sussistenza per questo popolo Diaguitos-Calchaquì.
"Come le chiamate le persone che filano la lana?" "Puscanos. In realtà a noi dà molto fastidio quando andiamo a Cafayate o in altri posti e la gente ci deride dicendo: guardali lì, i puscanos" "Perfetto! questo d'ora in poi dev'essere il più grande motivo d'orgoglio per il popolo Diaguitos-Calchaquì di Pampallana. Costruiremo un gran Puscano cosi che voi potrete dire, un giorno : se volete conoscere i più bravi tessitori, venite a Pampallana!"


La chiesa è gremita, il giorno è di festa. Vengono lentamente, da posti remoti, ore di cammino per assistere alla Santa Messa di padre Josè, meticcio e panciuto. Alcuni ragazzi riceveranno la cresima, altri la comunione, altri ancora il battesimo. Tutta la comunità, o quasi. Molti vestiti pieni di colore, qualche grigia camicia anni '50, un occhiale futuristico roteano davanti ai nostri occhi e confermano la sacralità del giorno. Anche noi dentro la chiesa, incollati all'atmosfera, partecipiamo piccoli e rispettosi tralasciando considerazioni antiecclesistiche a momenti più comodi. Bambini, sporchi e tanti, sorridono, corricchiano, si spalmano appiccicose caramelle attorno alla bocca, lanciano piccole grida eccitati forse dallo spazio chiuso e gremito.
Il vento si infiltra negli spazi, lasciati da mani inesperte, tra le pareti e il tetto di lamiera, il cui rumore roboante e spaventoso accompagna il sermone del cura e sembra una minaccia inviata da un Dio diabolico. Anche gli animali, creature qui trattate al pari degli uomini, partecipano disinteressati. Ma il momento più atteso arriva inaspettatamente alla fine della messa: iniziano a risuonare nelle nostre orecchie i nomi delle più importanti famiglie del paese, in tutto 6, da cui in realtà discendono tutti gli abitanti della comunità. Così che, a gruppi, i maschi di ogni famiglia sollevano un piccolo altarino di legno, dotato di santo e di voti fluorescenti, e lo trasportano fuori dalla chiesa. È qui che un gruppo di persone inizia a colpire, più o meno all'unisono, il tamburo che portano appeso al collo mentre il più alto dei cinque intona con un piccolo bandeòn (fisarmonica) una litania corta, pedante, ripetitiva. Il loro livello alcolico è decisamente alto, in particolare quello di El Chiva che, barcollando e con occhi gonfi, pretende di organizzare il lungo serpentone che si sta formando per la processione. Il padre, nel mezzo della gente, dà il via con un'orazione tuonata attraverso il megafono. Siamo anche noi trascinati nella gente, e persino da dentro abbiamo la sensazione di far parte di un grosso, barcollante, infreddolito e disperato barcone di anime che sta lottando per non perdersi nell'immenso vuoto che li circonda.
Quando torniamo in chiesa, ormai stabili e con i piedi ben piantati in questa surrealtà, è il nostro momento. Evitiamo di salire sull'altare per non creare conflitti d'interesse, e ci presentiamo alla comunità. Ovunque intorno a noi facce dure, consunte dal clima e dalla fatica, e occhi immobili catturati dai nostri tratti occidentali e forse anche dal nostro discorso. Continuiamo a parlare e ci sembra di non avere di fronte una platea, ma un quadro di Bosch. Finiamo con un applauso comandato da Gabriel, ma capiamo di aver centrato l'obiettivo quando siamo ricevuti in privato dal Casique Iloy Suares, capo indigeno dell'intera comunità Diaguitos-Calchaquì. Alto, robusto, fermo e deciso, lo hanno eletto dopo che ha liberato il suo popolo, a colpi di fucile, da un assassino schizoide (e per questo aver passato quasi 200 notti in galera). L'incontro è breve e pratico: ci dà il benvenuto, con voce roca e profonda parla dei problemi sanitari (dovuti per lo più all'arroganza dei medici responsabili della zona) e concordiamo sui pochi e fondamentali obiettivi da raggiungere. Quando si congeda la sua stretta di mano penetra nel profondo e ci trasmette una forza che ci accompagnerà per tutta la nostra permanenza.

Il primo film che videro fu Jurassik Park. Il giorno dopo Don Crecencio si recò da Gabriel (el maestrito) e dopo aver raggirato con parole e foglie di coca il vero motivo della visita, con reverenziale timore fece la seguente domanda : " Ma quegli animali vivono lontano da qui, vero?"


Le lunghe serate passate a parlare con Gabriel, uomo dall'incredibile e profondissima intelligenza antropologica, ci permette di entrare a fondo di certe dinamiche primordiali quanto universali. Prima dell'arrivo della scuola la gente di Pampallana viveva essenzialmente di pastorizia e di baratto. Senza padroni e nell'anarchia più totale, l'unico segno di privatismo era la divisione dei terreni costituita da muretti di fango e pietra. Nei primi due anni di sviluppo questa gente, consapevole dell'importanza vitale di un'istituzione come la scuola, non dimostrò la minima remora nel dare a disposizione terreni e soprattutto manodopera. Così come le donazioni, principalmente materiale scolastico e vestiti, erano accettate con umiltà ed estrema riconoscenza. Ma col passare del tempo, e con l'arrivo del primo benessere (materassi, latrine..) qualche meccanismo è cambiato. Le due famiglie più ricche e conosciute, con qualche lama in più per intenderci, hanno iniziato a competere, vanesie, nei confronti del nuovo "elemento" esterno, senza più cooperare per la comunità. Nessuno ormai presta la propria manodopera gratuitamente, ma solo in cambio di denaro. Qualcuno inizia a pretendere persino una migliore qualità e quantità delle donazioni. Non solo, ma il rincaro nella vendita dei loro prodotti (carne e lama) nei confronti dell'estraneo, padrino, maestro o dottore che sia, è calcolato con comportamenti eccessivamente amichevoli.
Un altro esempio, culturalmente più significativo è il rapporto che gli uomini hanno con le donne, sintetizzato alla perfezione dal termine "ramear". "Ramear" significa, nel castellano parlato qui, strappare (non cogliere) i rami di tola, basso cespuglio secco e spinoso, unica fonte di legname della zona. Questa parola viene utilizzata per descrivere il loro approccio con l'altro sesso : i figli si moltiplicano e il loro carico rimane, ovviamente, alla madre. Otto anni di apertura verso il mondo non possono bastare per incidere su di una società così profondamente patriarcale e dai meccanismi ancestrali. È necessario più tempo, più fiducia e il provarci può essere persino controproducente. È per questo motivo che Gabriel ci invita ad evitare qualsiasi tipo di educazione sessuale, ma ad essere pronti ad accogliere ogni tipo di richiesta che provenga da loro. Così impariamo che lo sviluppo di una qualsiasi comunità (e in particolare certi cambiamenti) deve partire dalla gente che ne fa parte e non arrivare dall'alto.



E infine noi, piccoli dottori dispersi e ritrovati in questa vastissima puna. Trenta giorni di quotidiano scontro e confronto con una mentalità così lontana.
Pedro ha 18 mesi, una febbre da cavallo, i polmoni che rantolano e piange di continuo. La madre, quando ce lo porta, non sembra particolarmente preoccupata, piuttosto alquanto incuriosita dai nostri lineamenti. Noi,abbastanza allarmati, mandiamo a chiamare Odorico, il responsabile sanitario di Pampallana, perchè sia lui a somministrare l'antibiotico. La risposta che rimbalza è che Odorico sta ferrando una mula perchè l'indomani dovrà andare in qualche posto sicuramente lontano per diversi giorni.
Che fare, che pensare. La rabbia e le imprecazioni investono rispettivamente noi e l'aria. Le medicine gliele porterà dopo, promessa strappata tra i denti. Quindi, il bollore passa e lascia spazio alle riflessioni. È forse questo il significato di essere lontani da casa. È forse questo il significato di ciò che chiamiamo "esperienza". Il comprendere come i contenuti di un discorso possano cambiare radicalmente nonostante le parole usate siano le stesse. Capire che persino il termine "responsabilità", se non adattato alle contingenze, rimane tragicamente vuoto. E allora ancora noi, chiudiamo gli occhi, abbassiamo le difese (e le arroganze) e ci adagiamo nelle loro braccia, lottando da dentro, con parole appena sussurrate.


Ando llorando pa´ dentro,
aunque me ria pa´ fuera.
Asi tengo yo que vivir
esperando a que me muera.

Le doy ventaja a los vientos
porque no puedo volar,
hasta que agarro mi caja
y la empiezo a vagualear.

Mi raza reza que pedira,
alla en el monte de caridad,
no tiene tiempo ya no da mas,
reza que reza porque sera

Valle sonoro de pedregal
piedra por piedra al viento va,
borrando huellas a mi dolor
silencio puro es mi corazon.

Me persigno por si acaso,
no valla que dios exista
y me lleve pa´ el infierno
con todas mis ovejitas.

No se si habra otro mundo
donde las almas suspiran,
yo vivo sobre esta tierra
trajinando todo el dia.

Mi raza reza que pedira,
alla en el monte de caridad,
no tiene tiempo ya no da mas,
reza que reza porque sera

Valle sonoro de pedregal
piedra por piedra al viento va,
borrando huellas a mi dolor
silencio puro es mi corazon.