domenica 8 novembre 2009

"El derecho de vivir no se mendiga. Se toma."

Gabriel Tomàs de la Torre arrivò a Pampallana nel 2001 a dorso di mulo, 120 chilometri dalla prima strada non asfaltata. Nel pieno della puna, l'altipiano si trova a circa 4000 metri di altitudine e la sua estensione è contenuta in un largo sospiro, uno dei tanti necessari per la scarsità di ossigeno. Lo disabitano qualche pastore e molti bambini, in case sparse che hanno lo stesso colore della terra e del fango. Qua e là drappelli di lama e pecore, visioni bibliche alla forte luce del sole.


Gabriel Tomás de la Torre arrivó con l'idea rivoluzionaria di installare una scuola. All'arrivo fu accolto nella casa di Don Cresencio, il capo spirituale e sociale della comunità, carica acquisita per anzianità. Sessant'anni, forse, qualche dente, forse, e la fatica scolpita nelle pieghe del volto. Gabriel si fermò da lui un anno, dormendo con lui per terra, scaldandosi allo stesso fuoco arso in mezzo alla stanza e lavandosi al fiume, quando il vento gelato e sottile lo permetteva.
Sono passati 8 anni. La scuola, oggi, è riconosciuta dal governo e conta di tre aule, tre maestri stabili e tre rotativi. Grazie alla mensa il problema malnutrizione è stato quasi completamente risolto. Sono state costruite latrine comuni, pozzi per la spazzatura, molta gente dorme su materassi e brucia legna in buchi sempre più simili a camini. Sono stati installati pannelli solari per l'approvvigionamento di corrente negli edifici comuni. È stato creato persino un piccolo spazio di riferimento, chiamiamola piazza, delimitata da un recinto circolare di sassi e centrata dall'enorme scultura del Puscano, a rappresentare la tradizione lavorativa di questo popolo. La comunità da 170 anime è cresciuta a 265 e gli alunni della scuola in totale sono 62. Infine, qualche giorno fa, sono state gettate le fondamenta per la costruzione di un piccolo quanto gigantesco centro di primo soccorso. Ma la vera magia di Gabriel non è stata quella di permettere questo incredibile sviluppo sociale, quanto quello di aver dato un'identità a questa comunità indigena, i Diaguitos -Calchaquì. Di dare un'ubicazione geografica, una coscienza di popolo, una dignità di essere umano a un pugno di gente dimenticata dal tempo. Facendo in modo che siano loro stessi ad essere gli autori di questa rivoluzione. Gabriel Tomàs de la Torre, il più grande e vero rivoluzionario che abbia mai conosciuto.


Sopravvivono di pastorizia. Allevano lama, pecore e qualche scheletrica mucca. Si nutrono grazie alla carne dei loro animali e grazie alla lana che vendono. Questa, dopo essere stata tagliata con delle cesoie tanto grezze quanto pericolose, viene filata con l'aiuto di uno strumento di legno, chiamato puisca. Nella sua forma e nel modo in cui viene utilizzata ricorda una trottola. La filatrice afferra con indice e pollice l'apice della puisca e con un movimento morbido e abituale la fa roteare, nel mezzo dell'aria o appoggiata con la sua punta al terreno, mentre con l'altra mano mantiene il filo teso. È così che si crea quel caldo e quasi magico gomitolo di lama, sussistenza per questo popolo Diaguitos-Calchaquì.
"Come le chiamate le persone che filano la lana?" "Puscanos. In realtà a noi dà molto fastidio quando andiamo a Cafayate o in altri posti e la gente ci deride dicendo: guardali lì, i puscanos" "Perfetto! questo d'ora in poi dev'essere il più grande motivo d'orgoglio per il popolo Diaguitos-Calchaquì di Pampallana. Costruiremo un gran Puscano cosi che voi potrete dire, un giorno : se volete conoscere i più bravi tessitori, venite a Pampallana!"


La chiesa è gremita, il giorno è di festa. Vengono lentamente, da posti remoti, ore di cammino per assistere alla Santa Messa di padre Josè, meticcio e panciuto. Alcuni ragazzi riceveranno la cresima, altri la comunione, altri ancora il battesimo. Tutta la comunità, o quasi. Molti vestiti pieni di colore, qualche grigia camicia anni '50, un occhiale futuristico roteano davanti ai nostri occhi e confermano la sacralità del giorno. Anche noi dentro la chiesa, incollati all'atmosfera, partecipiamo piccoli e rispettosi tralasciando considerazioni antiecclesistiche a momenti più comodi. Bambini, sporchi e tanti, sorridono, corricchiano, si spalmano appiccicose caramelle attorno alla bocca, lanciano piccole grida eccitati forse dallo spazio chiuso e gremito.
Il vento si infiltra negli spazi, lasciati da mani inesperte, tra le pareti e il tetto di lamiera, il cui rumore roboante e spaventoso accompagna il sermone del cura e sembra una minaccia inviata da un Dio diabolico. Anche gli animali, creature qui trattate al pari degli uomini, partecipano disinteressati. Ma il momento più atteso arriva inaspettatamente alla fine della messa: iniziano a risuonare nelle nostre orecchie i nomi delle più importanti famiglie del paese, in tutto 6, da cui in realtà discendono tutti gli abitanti della comunità. Così che, a gruppi, i maschi di ogni famiglia sollevano un piccolo altarino di legno, dotato di santo e di voti fluorescenti, e lo trasportano fuori dalla chiesa. È qui che un gruppo di persone inizia a colpire, più o meno all'unisono, il tamburo che portano appeso al collo mentre il più alto dei cinque intona con un piccolo bandeòn (fisarmonica) una litania corta, pedante, ripetitiva. Il loro livello alcolico è decisamente alto, in particolare quello di El Chiva che, barcollando e con occhi gonfi, pretende di organizzare il lungo serpentone che si sta formando per la processione. Il padre, nel mezzo della gente, dà il via con un'orazione tuonata attraverso il megafono. Siamo anche noi trascinati nella gente, e persino da dentro abbiamo la sensazione di far parte di un grosso, barcollante, infreddolito e disperato barcone di anime che sta lottando per non perdersi nell'immenso vuoto che li circonda.
Quando torniamo in chiesa, ormai stabili e con i piedi ben piantati in questa surrealtà, è il nostro momento. Evitiamo di salire sull'altare per non creare conflitti d'interesse, e ci presentiamo alla comunità. Ovunque intorno a noi facce dure, consunte dal clima e dalla fatica, e occhi immobili catturati dai nostri tratti occidentali e forse anche dal nostro discorso. Continuiamo a parlare e ci sembra di non avere di fronte una platea, ma un quadro di Bosch. Finiamo con un applauso comandato da Gabriel, ma capiamo di aver centrato l'obiettivo quando siamo ricevuti in privato dal Casique Iloy Suares, capo indigeno dell'intera comunità Diaguitos-Calchaquì. Alto, robusto, fermo e deciso, lo hanno eletto dopo che ha liberato il suo popolo, a colpi di fucile, da un assassino schizoide (e per questo aver passato quasi 200 notti in galera). L'incontro è breve e pratico: ci dà il benvenuto, con voce roca e profonda parla dei problemi sanitari (dovuti per lo più all'arroganza dei medici responsabili della zona) e concordiamo sui pochi e fondamentali obiettivi da raggiungere. Quando si congeda la sua stretta di mano penetra nel profondo e ci trasmette una forza che ci accompagnerà per tutta la nostra permanenza.

Il primo film che videro fu Jurassik Park. Il giorno dopo Don Crecencio si recò da Gabriel (el maestrito) e dopo aver raggirato con parole e foglie di coca il vero motivo della visita, con reverenziale timore fece la seguente domanda : " Ma quegli animali vivono lontano da qui, vero?"


Le lunghe serate passate a parlare con Gabriel, uomo dall'incredibile e profondissima intelligenza antropologica, ci permette di entrare a fondo di certe dinamiche primordiali quanto universali. Prima dell'arrivo della scuola la gente di Pampallana viveva essenzialmente di pastorizia e di baratto. Senza padroni e nell'anarchia più totale, l'unico segno di privatismo era la divisione dei terreni costituita da muretti di fango e pietra. Nei primi due anni di sviluppo questa gente, consapevole dell'importanza vitale di un'istituzione come la scuola, non dimostrò la minima remora nel dare a disposizione terreni e soprattutto manodopera. Così come le donazioni, principalmente materiale scolastico e vestiti, erano accettate con umiltà ed estrema riconoscenza. Ma col passare del tempo, e con l'arrivo del primo benessere (materassi, latrine..) qualche meccanismo è cambiato. Le due famiglie più ricche e conosciute, con qualche lama in più per intenderci, hanno iniziato a competere, vanesie, nei confronti del nuovo "elemento" esterno, senza più cooperare per la comunità. Nessuno ormai presta la propria manodopera gratuitamente, ma solo in cambio di denaro. Qualcuno inizia a pretendere persino una migliore qualità e quantità delle donazioni. Non solo, ma il rincaro nella vendita dei loro prodotti (carne e lama) nei confronti dell'estraneo, padrino, maestro o dottore che sia, è calcolato con comportamenti eccessivamente amichevoli.
Un altro esempio, culturalmente più significativo è il rapporto che gli uomini hanno con le donne, sintetizzato alla perfezione dal termine "ramear". "Ramear" significa, nel castellano parlato qui, strappare (non cogliere) i rami di tola, basso cespuglio secco e spinoso, unica fonte di legname della zona. Questa parola viene utilizzata per descrivere il loro approccio con l'altro sesso : i figli si moltiplicano e il loro carico rimane, ovviamente, alla madre. Otto anni di apertura verso il mondo non possono bastare per incidere su di una società così profondamente patriarcale e dai meccanismi ancestrali. È necessario più tempo, più fiducia e il provarci può essere persino controproducente. È per questo motivo che Gabriel ci invita ad evitare qualsiasi tipo di educazione sessuale, ma ad essere pronti ad accogliere ogni tipo di richiesta che provenga da loro. Così impariamo che lo sviluppo di una qualsiasi comunità (e in particolare certi cambiamenti) deve partire dalla gente che ne fa parte e non arrivare dall'alto.



E infine noi, piccoli dottori dispersi e ritrovati in questa vastissima puna. Trenta giorni di quotidiano scontro e confronto con una mentalità così lontana.
Pedro ha 18 mesi, una febbre da cavallo, i polmoni che rantolano e piange di continuo. La madre, quando ce lo porta, non sembra particolarmente preoccupata, piuttosto alquanto incuriosita dai nostri lineamenti. Noi,abbastanza allarmati, mandiamo a chiamare Odorico, il responsabile sanitario di Pampallana, perchè sia lui a somministrare l'antibiotico. La risposta che rimbalza è che Odorico sta ferrando una mula perchè l'indomani dovrà andare in qualche posto sicuramente lontano per diversi giorni.
Che fare, che pensare. La rabbia e le imprecazioni investono rispettivamente noi e l'aria. Le medicine gliele porterà dopo, promessa strappata tra i denti. Quindi, il bollore passa e lascia spazio alle riflessioni. È forse questo il significato di essere lontani da casa. È forse questo il significato di ciò che chiamiamo "esperienza". Il comprendere come i contenuti di un discorso possano cambiare radicalmente nonostante le parole usate siano le stesse. Capire che persino il termine "responsabilità", se non adattato alle contingenze, rimane tragicamente vuoto. E allora ancora noi, chiudiamo gli occhi, abbassiamo le difese (e le arroganze) e ci adagiamo nelle loro braccia, lottando da dentro, con parole appena sussurrate.


Ando llorando pa´ dentro,
aunque me ria pa´ fuera.
Asi tengo yo que vivir
esperando a que me muera.

Le doy ventaja a los vientos
porque no puedo volar,
hasta que agarro mi caja
y la empiezo a vagualear.

Mi raza reza que pedira,
alla en el monte de caridad,
no tiene tiempo ya no da mas,
reza que reza porque sera

Valle sonoro de pedregal
piedra por piedra al viento va,
borrando huellas a mi dolor
silencio puro es mi corazon.

Me persigno por si acaso,
no valla que dios exista
y me lleve pa´ el infierno
con todas mis ovejitas.

No se si habra otro mundo
donde las almas suspiran,
yo vivo sobre esta tierra
trajinando todo el dia.

Mi raza reza que pedira,
alla en el monte de caridad,
no tiene tiempo ya no da mas,
reza que reza porque sera

Valle sonoro de pedregal
piedra por piedra al viento va,
borrando huellas a mi dolor
silencio puro es mi corazon.

domenica 27 settembre 2009

A ruota libera.

Pensavi che la stazione centrale degli autobus di Buenos Aires fosse molto piú incasinata, ma non é cosí. Sei nella sala d'attesa e attendi, la Patagonia. Sali sul colectivo, sono 19 le ore di viaggio che hai di fronte. Dormi, ti svegli, il rumore é sempre lo stesso : ruote pesanti sull'asfalto, un rombo di ovatta nella testa, é dentro di te e tu dentro il colectivo, il colectivo dentro il paesaggio. Gli occhi ricominciano il loro instancabile lavoro di sempre, realizzando per primi il deserto che finalmente ha vinto sul cemento di Buenos Aires.


Ha mai osato tanto il tuo sguardo? La vastitá della spianata é accarezzata solo dai ciuffi legnosi degli arbusti e da quelli piú morbidi delle pecore. E sembra immobile, questa vastitá, ma é solo un teso equilibrio tra il vento e la terra, quello stesso vento che hai sempre immaginato stretto tra case e pertugi, subdolo e infingardo, lungo strade o sentieri, sempre confinato a se stesso, e che qui acquista invece una nuova dimensione di grandezza e dominio. É un vento largo e spavaldo quello che soffia qui, in Patagonia. E la forma delle piante ti suggerisce il solo modo per convivere con questa forza, ovvero lasciarsene sedurre.


I chilometri scorrono implacabili ed eccoti a Puerto Madryn, eccoti alla Peninsula Valdés, e allora il freddo, la spiaggia, l'Atlantico, i fenicotteri rosa che se ci corri vicino spiccano il volo e ti sembra di stare in un altro mondo, e poi le balene, che sono giganti e sbuffano come locomotive e che


saltano, saltano in mezzo al mare perché in piena esplosione ormonale che quasi esplodi anche tu, e poi i guanaco che sono come i lama ma lama non sono, e gli armadilli che pensavi fossero giganti e invece sono piccole e perfette sculture di cornea, e poi i pinguini, che stanno arrivando ma non sono ancora arrivati. E allora hai solo il tempo di tirare il fiato e di pensare che vuoi spingerti ancora piú a Sud, ed ecco che ti ritrovi di nuovo sul gigante a due piani che inghiotte l'asfalto, di nuovo immerso nella steppa patagonica.


Le distanze tra le cittá aumentano parallelamente alla desolazione. Pensi che é l'unico paesaggio arido pieno di pozze d'acqua. Ti fermi a Rio Gallegos, giusto una notte, giusto alla pensioncina qui a lato, dalla signora Ines, che ama l'Italia, che crede in Dio perché gli hanno ucciso il marito a fucilate lungo la strada per rapinargli il camion, e perché Dio é grande e si vendicherá, e senza Dio la vita sarebbe un inferno. Di fronte a questa disarmante ovvietá ti stupisci di trovarti completamente d'accordo, e vai a dormire, sperando che Dio non decida di vendicarsi proprio quella notte. E la mattina, all'alba, riparti. Il pullman é piú piccolo ma le ore di strada sempre tante. La desolazione, la melancolia, sensazioni che ti avvolgono e traspirano attraverso i pori, ma in senso inverso, da fuori a dentro; e si mischiano ai tuoi vent'anni e alla sensazione di libertá che i migliaia di chilometri di asfalto e terra battuta ti han distillato, per un risultato di dolce e impetuosa impotente onnipotenza.


É cosí che finisce la terra ferma, davanti a te la traversata del leggendario Stretto di Magellano, un barcone arrugginito, giusto lo spazio per il pullman e qualche rimorchio, e un piccolo ponte dove sali, quasi correndo, non senti il vento che taglia la faccia, non senti il freddo che addormenta le mani, non senti il tuo stesso grido (stai gridando?). E approdi, Terra del Fuoco, quella stessa terra che ti ricordi da quando eri piccolo perché ti avevano detto che faceva freddissimo, ma per te era pur sempre la terra del fuoco, e cosí avevi realizzato che anche il ghiaccio puó bruciare. Altre ore di steppa e poi di colpo il paesaggio cambia perché nella parte Sud della Terra del Fuoco nascono le Ande, o forse muoiono, proprio dentro al mare, proprio nel punto in cui Pacifico e Atlantico si annullano a vicenda, e dove, molti anni fa, fu costruita una colonia penale che porta il nome di Ushuaia, la fine del mondo. Ma per te che sei arrivato fin lí, cosí non é, per te la fine del mondo é ancora oltre, é Capo Horn, é l'Antartide, ma devi accontentarti dell'Isla H, fazzoletto di terra nel Canale di Beagle, perché é inverno e in questa stagione non si puó osare oltre. Troppo pericoloso.


E allora non ti rimane altr
o se non girare in tondo per la cittá e accontentarti dei personaggi tendenzialmente alcolici che incontri. Come Jeremia. Lo conosci in bagno, tu ti stai asciugando dall'acqua della doccia, lui, entrato all'improvviso, si sta bagnando e pettinando a piú riprese (e apparentemente senza un obiettivo preciso) il suo riporto grigio-bianco. E ti racconta a flusso continuo, senza presentazioni, che vive in ostello, che la moglie l'ha cacciato di casa, che sta cercando lavoro, vorrei aprire una ferramenta, ho giá del materiale in una cantina qui vicino, forse un amico mi concederá dello spazio nel suo piccolo Kiosco proprio alla fine di questa strada, peró ora come ora vivo alla giornata, ma non va poi tanto male, ho persino conosciuto un pastore qualche tempo fa, un pastore della Chiesa Evangelica Apostolica, lavora con i senza tetto, gli offre di che mangiare e coprirsi, sai, qui fa parecchio freddo, e anch'io vorrei essere un pastore, ho iniziato a studiare la Bibbia, ma sai come mi chiamo? Jeremia..come il profeta. Ora devo andare, tanto piacere. E ti ritrovi a pensare, ormai completamente asciutto, che una scena cosí l'avevi vista solo in un film (l'Odio) e che forse la Patagonia é abbastanza cinematografica per tutto questo.. e allora tiri il fiato un'altra volta e torni per strada.


Risali verso Nord, ma questa volta lo fai piú a Est, la ruta non é piú la 3 ma la 40, e alla tua
sinistra, finalmente, le Ande sono un confine dove lo sguardo puó trovare riparo. E mentre pensi che queste montagne ti accompagneranno per i prossimi mesi, realizzi che anche la vegetazione é cambiata e che gli arbusti hanno lasciato spazio a gruppi di alberi secchi, grigi, spettrali. Assolutamente in sintonia con la Patagonia.



Puó una montagna vomitare tanto ghiaccio?

Guardando da lontano il Perito Moreno é la prima domanda che prende forma. E poi ti ritrovi di fronte a lui, e ne avverti i crepitii. E poi ti ritrovi in barca sotto di lui, e lo senti che si muove, animale preistorico, fino a liberarsi sputando il ghiaccio nel lago sottostante, cimitero di iceberg da cui lo stai osservando. Ma é quando sei sopra di lui, quando l'hai addomesticato e conquistato con dei ramponi ai piedi, che ti svela i suoi segreti. Cristalli, ruscelli, laghi azzurri, crepacci blu, sculture dalle forme bizzarre.. e ti sembra di stare in una fiaba scolpita da Gaudí.



Giusto il tempo di assimilare la meraviglia. Giusto il tempo di apprezzare il gesto di Ricardo, vecchio panadero di origini gallesi, che ti offre parte del suo lavoro (decisamente le empanadas piú buone della Patagonia!) perché fiero dei motivi del nostro viaggio, fiero non come argentino ma come essere umano. Giusto il tempo di scoprire che la Ruta 40 piú a Nord é inagibile e che dovrai tornare indietro e riprendere la 3, il che significa 42 ore di strada fino a Bariloche, tua prossima tappa. E questa volta non solo tiri il fiato ma stringi anche un po' i denti, decidi di spezzare il viaggio, di nuovo a Puerto Madryn, perché stavolta i pinguini sono arrivati e puoi finalmente vederli, guardarli, imitarli, sono migliaia. E risali sul colectivo contento e un po' pinguino, e nelle altre 19 ore di strada riesci ancora a notare la moltitudine di forme che le nuvole assumono, ma la differenza, rispetto alla banale scoperta, é la perfezione dei contorni sullo sfondo senza fine. E ti svegli che sei nuovamente tra le Ande, a San Carlos de Bariloche, ricca, snob, fredda. E il nome del suo immenso e cupo lago, Neuel Huapi, ti suona quasi una minaccia di vendetta su coloro che hanno usurpato quelle terre selvagge sterminandone i nativi. Con un colpo di reni affronti le ultime 22 ore di pullman che ti separano da Buenos Aires, gli occhi ancora incollati al paesaggio e tu, a ruota libera tra asfalto e poesia.





P.S. Abbiamo aggiunto un piccolo video alla fine del post precedente "Garage Olimpo". Tanto per.

domenica 13 settembre 2009

Garage Olimpo

Iniziamo a parlare dell'Argentina con un argomento che ci sta particolarmente a cuore. In Europa si parla molto dell'olocausto che il popolo ebraico ha sofferto nel ventennio nazifascista. Tralasciando le polemiche su come questo fatto sia quotidianamente "venduto" da una certa parte politica integralista in nome dell'ebraismo (citando Norman G. Finkelstein, ebreo e figlio di deportati, oggi insegna all'Università di Chicago), la questione è che non conosciamo pressochè nulla di altri olocausti, avvenuti con mezzi e metodi differenti, ma con uguale ferocia e crudeltà (e che tuttora si consumano in diverse parti del mondo, vedi appunto Palestina). Ci riferiamo qui in particolare agli otto anni di dittatura militare che han caratterizzato l'Argentina dal 1976 al 1983; e a quel "fenomeno" meglio conosciuto col nome delle sue vittime : desaparecidos. Non è nostra volontà raccontare gli avvenimenti storici qui e ora (ci si può facilmente informare con libri o attraverso internet).
Riassumiamo comunque in due parole ciò che quotidianamente avveniva : un apparato paramilitare, i grupos de tareas (nè esercito, nè polizia) era autorizzato a sequestrare i cosiddetti dissidenti, termine alquanto vago e attribuito a discrezione (personale) di chiunque avesse un po' di potere. Socialmente spariti, i sequestrati venivano portati in centri di detenzione clandestina, la maggior parte dei quali si trovavano in pieno centro di Buenos Aires (ad esempio un edificio della scuola della marina militare argentina, la EMSA, oggi Museo della memoria), e lì venivano sistematicamente torturati. Per poi essere gettati con aerei di Stato in pieno oceano. Già morti o il più delle volte ancora vivi.
Dopo il ritorno alla democrazia, qualcuno pagò ma i più sono rimasti impuniti grazie a due leggi-amnistia promulgate da Menem (da poco nuovamente annullate perchè dichiarate incostituzionali grazie alla magistratura.. giusto quel potere che in Italia vogliono eliminare..)

Ancora oggi le madri dei desaparecidos, riunite nell'associazione Madres de Plaza de Mayo, ogni giovedì dalle 15.30 alle 16.30 sfilano nella piazza 25 de Mayo davanti alla Casa Rosada (sede del potere esecutivo) rivendicando giustizia. Lo fanno da 30 anni, con quella tenacia che solo le donne possiedono.

Arriviamo qualche minuto prima e troviamo già un'atmosfera densa d'emozioni. Le madri dell'associazione sono facilmente riconoscibili per via della bandana bianca che indossano come copricapo. Sono una ventina, sparse attorno al sottile obelisco marmoreo che centra la piazza come il braccio di un compasso. Alcune vendono spille e libri documentaristici dietro ad una bancarella; altre condividono parole e ricordi con chi è disposto ad ascoltare. Il nostro interesse è catturato in particolare da un gruppo di giovani scolari che circonda, quasi inghiotte, una piccola donna anziana, stereotipo di nonna. Sta raccontando di come hanno sequestrato la figlia, in pieno giorno. Gli occhiali opachi e la voce bassa ma ferma rendono i suoi occhi inumiditi dal ricordo un'immagine indelebile nella nostra mente.
Alle 15.30 rintocca la campana della Catedral, e puntuali le madres della piazza si riuniscono dietro ad uno striscione blu che recita : "Contra la riqueza y la oligarquia terrateniente" (Contro la ricchezza e la oligarchia padrona).


Si leva un timido applauso di incoraggiamento dalla folla che si è pian piano accumulata nella piazza. E queste donne, la cui più giovane avrà sessant'anni, nè fiere e nè orgogliose, ma dalla disarmante perseveranza, iniziano la marcia circolare, lenta, quasi ritmica, attorno all'obelisco.
Partecipiamo, come molta gente comune. Spuntano foto, manifesti, visi di figli spariti. Scopriamo che parallelamente a questo olocausto si è sviluppato un giro di adozioni clandestine di bambini figli di desaparecidos. In tutto circa cinquecento. Senza possibilità di individuarli.
Il nodo alla gola si stringe un po' e, alla fine della marcia, durante un altro applauso di due minuti, la commozione è diffusa.


Le ferite non solo sono ancora aperte, ma sanguinano copiosamente: fatto recente è l'intimidazione ricevuta dalla presidentessa dell'associazione (Hebe de Bonafini) che si è trovata la porta di casa crivellata di colpi...


Ma la densa goccia d'angoscia in questo mare di rabbia è la nostra constatazione di come le libertà individuali, persino nel nostro "avanguardista" mondo Occidentale, non siano un dono a priori,ma debbano essere continuamente difese. In questa tremenda deriva del "senso critico" non conosciamo più il significato delle parole, ed è così che releghiamo termini come "ignoranza", "olocausto", "dittatura" a tempi passati, lontani. E non indaghiamo più sull'imponente significato che hanno.
E allora penso al mio paese, dove esiste la censura. Penso al gesto di Borghezio, che disinfetta i treni su cui viaggiano gli stranieri. Penso ai passatempi interattivi come "rimbalza il clandestino" e a dichiarazioni di come sia legittimo torturarli. Penso agli avvenimenti occorsi nella caserma di Bolzaneto. E infine penso che nel mio paese c'è chi opera affinchè l'odio sociale cresca, affinchè il terrmine democrazia cambi significato, e affinchè si trovi un capro espiatorio su cui concentrare l'attenzione e la propria frustrazione. Ovvero, il dissidente/clandestino di turno.

Vogliamo concludere consigliando a tutti (come tempo addietro hanno consigliato a noi), uno dei tanti film che trattano di questo argomento : Garage Olimpo. Non è un documentario, è semplicemente un film. Direi, d'azione.

Video : www.youtube.com/watch?v=lk8vpuajKGc

venerdì 28 agosto 2009

Uruguay. Aneddoti...







- In Uruguay ci sono 3,5 milioni di abitanti e circa 9 milioni di mucche. Vale a dire che ogni abitanteha a disposizione quasi 3 mucche...

- Al quinto posto tra i prodotti di importazione del paese, dopo petrolio, macchine industriali, energia elettrica e prodotti plastici c'è la Yerba mate. Un' erba utilizzata come infuso che gli uruguagi bevono perfino camminando per strada.
Per ulteriori informazioni sulla strumentazione necessaria e sulle diverse yerbas ecco un link interessante: http://en.wikipedia.org/wiki/Mate_(beverage)




Originale metodo di riscaldamento acqua in Cabo Polonio.

- A Montevideo ci sono moltissime spiaggie che si distendono, placide, per chilometri. Ma la vera particolarità é che dalla stessa spiaggia puoi immergerti un giorno nelle acque blu dell'Oceano Atlantico e il giorno dopo nelle correnti marroni del rio de la Plata.

- Non possiamo non fare un accenno alla principale festa uruguagia dopo la Navidad e il Carnaval. Si tratta della Fiesta de la Nostalgia : un evento che si svolge la notte del 24 agosto (approfittando della festa ufficiale del 25, ricorrenza dell'indipendenza del paese). Ogni locale propone feste, dai ristoranti alle discoteche, tutte rigorosamente con il tema del ricordo. Quindi musica, vestiti e persino trucchi anni 50 - 60 - 70 - 80 (in questi giorni è molto facile trovare nei negozi le tuniche argentate che usavano gli Abba, o i trucchi per dipingersi il viso come un chiarrista dei Kiss).
A seconda di ciò che ti rende più nostalgico, farai la tua scelta. Uruguagi...


Maschera del Carnaval : Pachamama

- Un ultimo accenno al cielo: non sprechiamo parole su quello che vediamo la notte sopra di noi, soprattutto quando ci troviamo in luoghi privi di luce.
Lasciamo libera la vostra immaginazione e, a chi è più interessato, lasciamo anche questo link informativo:
http://it.wikibooks.org/wiki/Osservare_il_cielo/Costellazioni_australi



Alba in Cabo Polonio

venerdì 21 agosto 2009

Consonanze

Madruguita ha smesso di contare i suoi anni da quando ne ha compiuti 80. Una voce stridula, qualche dente sparso e un'allegria contagiosa. Gli ultimi cinque lustri li ha passati vivendo in un casa-stanza a lato di una vecchia scuola dove alloggiamo da qualche giorno.
Una lampadina al neon alimentata da una batteria d'auto (caricata di giorno alla luce del sole) e una stufa a legna sono gli ultimi gingilli tecnologici di cui dispone.
La strada provinciale dista venti chilometri da qui e il primo centro abitato quarantacinque. Distanze irrosorie rispetto a quella di Madruguita dal tempo.


La vecchia scuola è gestita da Pablo, un campesino di forse trent'anni che permette di insinuarci nell'anima più profonda dell'Uruguay. Fatta di una naturalezza verde, ondulata, prospera e di un'umanitá semplice ma abbastanza distaccata. Direi contemplativa e vistosamente malinconica. Da cui, forse, la sensazione che in certi paesini regni invidia più che concordia; persino in un posto come
Cabo Polonio, paesello di quattrocento case sparse sulla spiaggia a cui si puó accedere dopo quaranta minuti di jeep non più di tre volte al giorno. Popolato da molti giovani pseudo-fricchettoni e qualche anziano pescatore, d'inverno si contano in tutto settantadue abitanti.
Ci aspettiamo di ascoltare, non necessariamente capire, la profondità o le speranze di certe scelte. Invece per quattro giorni sentiamo solo sparlare gli uni degli altri e viceversa; nella spasmodica attenzione allo sballo (per quanto abbiamo visto solo leggero). Così che ce ne andiamo più leggeri nel portafoglio che nell'animo.






Cabo Polonio: dalla finestra della camera.

Dopo i mesi di preparazione, cerebrale e non, al viaggio e gli 11000 chilometri finora percorsi, l'Uruguay non sembra poi cos¡ lontano. Non si prova quello stacco, temibile e squisitamente fascinoso, che ci si può immaginare a certe distanze ( e per di piú nell'emisfero australe). La cultura è molto vicina alla nostra, così come i visi e gli sguardi. Suscita meno impressione vedere uno spilungone biondo qui che nel centro di Palermo ( nonostante i Normanni).
O forse il tutto si può meglio spiegare così: l'Uruguay non è un posto di dissonanze. Piuttosto direi che è un posto di consonanze assurde. Puoi assistere ad un cambio della guardia, il venerdì ore 12 in
Plaza Indipendencia a Montevideo, in cui i diversi momenti vengono introdotti al microfono da una presentatrice. Puoi osservare un cane, in spiaggia fra gli scogli, che abbaia e gioca con un pinguino. Puoi utilizzare un bidè con uno spruzzino-doccia incluso ad altezza dei genitali. Oppure puoi constatare dal finestrino di un autobus che delle mucche stanno pascolando all'ombra di palme...




Per concludere: l'unica vera sensazione di distanza l'abbiamo avuta guardando sventolare davanti al palazzo legislativo una gigantesca bandiera uruguaya.





sabato 8 agosto 2009

"Guarda,usano ancora il calesse!" "No, sono i cartoneros"

La storia dell' Uruguay si fonda sulle gesta eroiche del bandito Josè Artigas. Fu il primo a capire che era meglio lavorare per se stessi piuttosto che per spagnoli o portoghesi. Di lui si narra che, in esilio in Paraguay, a capo di trentatrè valorosi uomini, distrusse l'armata portoghese in quattro fondamentali battaglie : Sarandì, Piedras, Rincon y Ituazingò. Provate a ripetere,  sussurrandoli, questi nomi, e potrete avvertire i brividi dell'impresa...





Qui a Montevideo la raccolta differenziata non esiste. O perlomeno, non nel modo in cui la intendiamo noi. Per le strade si vedono, pochi, cassonetti verdi. La basura accatastata ai loro lati. Niente di particolarmente sporco. Tutto mischiato, nulla diviso.
Loro compaiono al crepuscolo. Li puoi avvertire prima di vederli per il rumore degli zoccoli dei loro cavalli sull'asfalto. Il primo slancio, forse direttamente da ricordi dell'infanzia, è quello di individuare da dove viene lo scalpiccìo così fiabesco. È in questo modo che, come una palla di cannone fredda e grigia, fanno breccia nel tuo campo visivo. Un polveroso carro di assi di legno con due grandi ruote cigolanti, circondato da grandi sacchi di plastica nera o di tela grigiastra. Pieni o mezzi vuoti di materiale "cartonoso". Il cavallo che li trascina, magro ma lucente nell'opacità del quadro, e guidato da uno, spesso due, ragazzi dall'età indefinibile. Sporchi e cenciosi, procedono al trotto passando gli incroci come visioni. Si fermano d'improvviso. Il cartonero salta stancamente dal carro, si avvicina al cassonetto e rovista nella basura. In cerca di materiale da riciclo. Carta, soprattutto, ma anche plastica. Vetro non se ne trova, troppo prezioso. Tutto ciò che trovano da reciclare viene caricato in questi grandi sacchi, via via sempre più carichi di speranza. Poca.



Un lavoro umile,troppo per le nostre latitudini. Qui stanno iniziando ad associarsi per il riconoscimento dei loro diritti di lavoratori.
    
                                                                         

Ma il primo vero incontro diretto con l'Uruguay lo facciamo con la clase media. Attraverso Ivo, un ragazzo di 59 anni romano emigrato qui a Montevideo, conosciamo due donne sulla quarantina : Silvana (padre siciliano) e Rossana (padre abruzzese). Non deve stupire l'italianità dei loro nomi, essendo la normalità in questo paese (Paola Tarallo, guida del Teatro Solìs, o Lucia Bonomi Agazzi, candidata per le prossime elezioni politiche. Tutti rigorosamente uruguagi).Quindi si mangia a Pocitos, quartiere in, si ascolta tango,si beve vino rosso...si parla.

  
 (notare la somiglianza del suonatore di fisarmionica con Giorgino Sabaudo...)


Ed ecco affiorare, discreto come un sussurro e pesante come la storia, quello che penso si possa definire"complesso d'inferiorità".
Io parlo, e vedo annuire in automatico, persino laddove mi contraddico. Loro parlano, filo di tensione emotiva teso fra i denti. Si interrompono a qualsiasi gesto vagamente espressivo del mio viso. Ma soprattutto i loro occhi fuggono spesso. Sembrano attente a dire cose interessanti e mantengono un tono dimesso, quasi ad ogni frase. 

"......... tanto sapranno com'e`,no? il mondo..... loro sono italiani, europei..avranno visto di molte cose il meglio,no?......e che gli dico?....ciò che può essere interessante per me è chiaramente obsoleto per loro............."

Questa è l'impressione : discreta come un sussurro, pesante come la storia.
(ci teniamo a sottolineare che abbiamo frequentato per più giorni Silvana e Rossana e, nella loro quotidianità, si sono rivelate persone molto gentili, raffinate e spontanee).

In attesa di incontrare il pueblo, riflettiamo su questa timida e spaurita classe media. Camminando, bevendo Mate, respirando l'Atlantico.




                                       


  
 

domenica 2 agosto 2009


.......vamos!